iPeople… e tu?
Inizia oggi il nostro viaggio alla scoperta, con leggerezza e spirito, del cambiamento sociologico e psicologico che stiamo affrontando in questi anni di grandi rivoluzioni tecnologiche. Osservando infatti le persone chine sui propri smartphone, non si può non riflettere su come i cellulari ci abbiano cambiato le abitudini, come ne abbiano creato di nuove, ma anche come ne abbiano distrutte alcune.
Chi non si ricorda le code davanti alla cabina telefonica con un solo gettone in mano, sperando che potesse durare per tutta la telefonata. I più “anziani” hanno visto anche una macchina “cambia gettoni” vicino al telefono pubblico, quello giallo per intenderci.
Darsi appuntamento era una “cosa seria”. Non si diceva “ci sentiamo dopo”, “ti aggiorno tra un po’”, “dai poi vediamo”. Si dava un orario e ci si vedeva, non esistevano scuse. Se non ci si presentava ad un appuntamento, beh allora… era sicuramente successo qualcosa. Si aspettava il giorno dopo o si chiamava a casa, nella speranza che qualcuno sapesse dove fosse la persona che dovevamo incontrare.
Quanto ci hanno cambiato i cellulari. Hanno cambiato il modo di scrivere, di pensare. Siamo molto più veloci, ma anche molto più superficiali. Sempre di corsa, comunichiamo le nostre emozioni con delle faccine, usiamo i punti di sospensione per creare suspence, ma anche per dare un accezione più dolce e riflessiva al pensiero che seguirà.
Hanno cambiato il nostro modo di scrivere, peggiorandolo. Non c’è dubbio. Quanti di noi riescono a scrivere le proprie emozioni senza un emoij? Quante persone riescono a dire realmente “ti amo” senza un cuoricino o una citazione di una canzone? Quanto ci nascondiamo dietro quello schermo; diventiamo forti, aggressivi, a volte più coraggiosi. Non sono solo note negative, a volte lo schermo, l’anonimato (almeno quello che riguarda le espressioni) può aiutare a comunicare.
Quanti preferiscono scrivere una bella e-mail per aprirsi ad una ragazza che li mette in soggezione? O quante preferiscono inviare un messaggino al ragazzo più bello della scuola o al proprio collega di ufficio?
I messaggi aiutano, ma allontano le persone con la scusa di averle “sempre accanto”. Passano giorni, mesi, anni ma alla domanda “lo hai più VISTO?” si risponde sempre “si guarda, l’ho sentito proprio ieri su whatsapp”, confondendo vedere con sentire, l’abbraccio con il messaggio col cuoricino.
E passano gli anni, anni preziosi, momenti che non torneranno più. Gli anni che segnano le rivoluzioni, come quella della fotocamera.
Avreste mai immaginato di fotografare un piatto di pasta? Oppure fotografarvi con un panino in mano sorridenti? I cellulari forse sono prima di tutto delle macchine fotografiche. Fotografiamo tutto; cibo, oggetti, luoghi, persone, sopratutto – ultimamente – noi stessi!
L’incubo dei selfie. “Ci facciamo un selfie?” Quindici anni fa avremmo risposto “cos’hai detto, non ho capito”. Oggi farsi un selfie vuol dire fare qualcosa di moderno, di attuale, di “figo”. E si è già cambiato il significato. La tecnologia brucia le tappe. Selfie è una foto di se stessa, ma ora già quando ci fotografiamo con altre persone diciamo “ci facciamo un selfie oppure vuoi farti un selfie con me?.
Quante abitudini, dicevamo, sono cambiate. Ricordo quando per farsi una fotografia si andava dal fotografo anche semplicemente per fare la foto dei documenti. Ora ci si posiziona davanti a un computer e si realizzano foto destinate a diverse tipologie di documenti o atti pubblici.
Per ogni abitudine che abbiamo acquisito, ne abbiamo perso qualcuna. Prima si compravano i rullini, ora ci si stampa le foto direttamente a casa con stampanti sempre più piccole e sempre più portatili. Un tempo si sceglievano accuratamente le fotografie da far vedere, ora si raccolgono tutte nelle “storie” da poter pubblicare più velocemente possibile. Perché? Per dire che “ci siamo”, per dire “hai visto che vita felice ho?”, per dire “io mi diverto”.
Questi atteggiamenti generano ovviamente patologie, insicurezze, confronti, debolezze anche se, spesso, si scoprono i trucchi. I filtri, le fotografie ritoccate, i post su Facebook creati ad arte. La felicità spesso è creata ad hoc per un post, per un’immagine che segni il nostro momento e lo trasmetta agli altri. Si creano falsi miti che generano ancora più insicurezza e debolezza di quella che già si mostrava prima.
In passato una persona introversa rimaneva chiuso a casa e tutti sapevano che aveva difficoltà a relazionarsi. Oggi l’introverso rimane sempre chiuso a casa, ma gli basta una foto sorridente o un bel fotomontaggio, per far credere a tutti che è davvero felice e non più… così tanto introverso.